I
colonizzatori greci in Sicilia produssero ceramiche in collaborazione
con i Siculi ellenizzati. Questo chiaramente dimostrò il casuale rinvenimento
dei resti di una fornace siceliota del V e IV secolo a.C., avvenuto
nel giugno del 1948 entro la selva del monastero benedettino di S. Gregorio
in Caltagirone, in occasione di profondi sterramenti per l'ampliamento
dell'edificio della locale Scuola di Ceramica. Ivi alla distanza di
alcune decine di metri dall'abside della vicina chiesa di S. Nicola
di Bari, verso oriente, alla profondità di circa tre metri dal livello
del declivio, emersero, attorno al cinerario di una modesta fornace
schiacciata dagli smottamenti di terra, innumerevoli e significativi
rottami appartenenti alle piú svariate sagome di vasellame fittile.
Cocci di vasi globulari del quarto periodo siculo con decorazione lineare,
frammenti di ceramiche greche a vernice nera e a figure rosse fornirono
chiara documentazione di una fioritura della ceramica al tempo della
colonizzazione greca nel luogo ove sorge Caltagirone. Gran parte di
questo materiale ceramico frammentario fu da noi raccolto ed oggi vedesi
esposto in alcune vetrine del locale Museo della Ceramica. Esso ci dice
chiaramente che la maggior parte degli oggetti ceramici trovati in precedenza
attorno all'abitato caltagironese aveva provenienza locale.
Alla luce di tali testimonianze, non è dubbio che sia da ritenere di
produzione locale anche il bel cratere a figure rosse scoperto nel 1914
nei pressi di una fornace a S. Luigi, località ricadente ora entro la
stessa città. Il pregevole vaso, oggi conservato nel predetto Museo
della Ceramica, riproduce nella faccia principale un ceramista all'impiedi
che sulla ruota girata da un garzone plasma un grande "phitos",
sotto la protezione di Atena. Il singolare cimelio documenta e magnifica
un'arte millenaria praticata sul luogo ove ora sorge Caltagirone. A
maggiore conferma di ciò, sono venuti alla luce in scavi condotti alcuni
anni addietro dalla Soprintendenza alle Antichità della Sicilia orientale
nella vicina contrada S. Mauro, le fornaci per la cottura di questi
grandi "phitoi". L'uso di questo tipo di vasi riscontrato
anche a scopo funerario, amplia il panorama della produzione e giustifica
la mole delle fornaci ivi rinvenute. Esse si presentavano a pianta ellittica,
con intuibile copertura emisferica, che doveva essere fatta, di volta
in volta, di argilla impastata con paglia, ricoprente i grossi vasi
da cuocere colmati ed interstiziati da legna grossa. Detti vasi erano
sistemati su un piano concavo di terra battuta recinti da muretto in
pietra intonacata d'argilla con due o piú bocche da fuoco in corrispondenza
dei cinerari formati dagli stessi cunicoli ricavati fra i vasi addossati.
Quando l'accensione attraverso le predette bocche da fuoco era avviata,
queste venivano chiuse. Si aveva così una cottura lenta che durava fino
alla consumazione della legna frapposta negli interstizi dei vasi sotto
la coperta di terra su cui erano praticati dei piccoli ma numerosi sfiatatoi
per alimentare d'ossigeno internamente il fuoco acceso. Queste fornaci
per la loro elementare struttura, assai vicine alle fosse per fare il
carbone e alle "calcare" per la cottura del gesso e della
calce, hanno spiegato alla distanza di millenni il segreto del procedimento
di cottura dei grandi vasi, rimasto per l'addietro sempre un mistero.
Ma invero, come si può capire da quanto detto, non è un mistero se la
lettura dei reperti va fatta adeguatamente. Non è neppure un mistero
la vernice nera dei vasi greci, a portata di ogni ceramista del tempo,
sol che si fosse fornito dell'apposito colorante fatto di argilla naturale
pregna di ossido di ferro e di un fondente che generalmente era il "natron".
Tutto poi stava nel procedimento di cottura che costituiva il vero magistero
dell'arte. Lo stesso dicasi della vernice corallina dei vasi aretini.
Nei dati archeologia anzidetti, trova così conferma quanto incidentalmente
scrisse nel 1654 il gesuita Gianpaolo Chiarandà nella sua storia della
città di Piazza Armerina.
Lo scrittore, infatti, già ammetteva che l'arte della ceramica fosse
stata a Caltagirone anteriore alla venuta degli arabi e che anzi alla
città essi avrebbero dato nome "Caltagirone", pigliandolo
dall'arte ceramica ivi esercitata "da molti vasai".
Il Chiarandà si riferiva particolarmente ai termini derivanti dall'arabo, "Calata" e "giarrone" per cui Caltagirone
equivarrebbe a "Collina dei vasi".
Non è quindi nuova nè infondata la comune affermazione che i ceramisti
arabi, in seguito alla conquista musulmana dell'isola, si siano tosto
stabiliti in questo centro ceramistico ed abbiano dato nuovo impulso
all'arte ceramica, facendovi brillare i procedimenti tecnici da loro
portati dall'Oriente. Ci riferiamo in particolare alla invetriatura
piombifera e stannifera che soppianta in Occidente ogni residua tecnica
ereditata dal mondo classico.
Le ragioni per cui la ceramica calatina ebbe nel Medioevo notevole impulso
sono da ricercare non solo nella buona qualità delle argille, di cui
abbonda la città e su cui essa stessa è assisa, ma anche nei vicini
ed immensi boschi che da una parte alimentavano e favorivano l'enorme
sviluppo dell'industria del miele, con la conseguente richiesta di recipienti
per la conservazione, e dall'altra fornivano inesauribilmente la legna
che gratuitamente potevano prendere, ed in abbondanza, per la cottura
dei loro forni, i numerosi ceramisti del luogo. Le quartare caltagironesi
per contenere il miele erano note ovunque, al pari dell'industria del
miele di cui parla nel secolo XII Idrisi, il geografo arabo alla corte
di Ruggiero normanno. Esse sono notate anche negli inventari di beni
lasciati in eredità, come quello del 1596 di D. Matteo Calascibetta,
Barone del Cotumino, abitante nella città di Piazza. Che nel Medioevo
in Caltagirone il numero degli artigiani dediti all'industria del vasellame
invetriato fosse rilevante è confermato dalla notizia, fornitaci dal
P. Francesco Aprile, di fornaci di cannatari sepolte da una frana nel
1346 sul fianco occidentale del castello, e dall'esistenza ai primi
del '500 di un intero rione di maiolicari - distinto da quello dei comuni
vasai - a fianco della Chiesa di S. Giuliano e precisamente dove nel
1576 sorse la Chiesa di S. Agata. Il più antico maiolicaro di cui si
ha notizia, è maestro Federico Judica che nel 1456 venne chiamato a
Noto per insegnare l'arte della smaltatura del vasellame. La notizia
è stata ricavata dai rogiti del notaio Giuseppe Musco di Noto dalla
studiosa Lúcia Arcifa. Nei decorsi anni, come abbiamo potuto direttamente
constatare, sono state rinvenute due fornaci di ceramisti, una entro
la stessa chiesa di S. Agata e l'altra avanti la chiesa di S. Giacomo,
databile al sec. XVI la prima e la seconda al secolo precedente. La
maestranza, abbandonata la lontana cappella della Madonna del Salterio
o del Rosario della Chiesa Madre, si raccolse nell'anzidetta chiesa
di S. Agata, prima che passasse nel tardo secolo XVII nella confraternità
dell'Immacolata nel vicino convento di S. Francesco d'Assisi dei PP.
Conventuali. Si sa altresì che questa maestranza, fiera dell'arte che
esercitava, offriva al protettore della città, S. Giacomo, dei paliotti
d'altare fregiati delle proprie armi o stemma che era il vasaio al tornio.
Ma sebbene molti siano i nomi dei ceramisti del '500 che noi rileviamo
dai documenti scritti e principalmente dai Riveli, che ci indicano oltre
cento officine di maiolicari attive in detto luogo, a causa dell'immane
cataclisma del 1693, che sconvolse tutte le città della Sicilia orientale,
pochissime sono le opere superstiti e soltanto un frammento di un bacile
di acquasantiera, conservato nel Museo civico di Piazza Armerina, ci
dà il nome dell'autore attraverso la seguente scritta che in esso si
legge: "lafóti lafichim. joanelu di maulichi", cioè "la
fonte la fece maestro Jovannello Maurici". Questi apparteneva
ad una grande famiglia di maiolicari che verso la fine del '500 si estese
nella lontana Burgio nell'Agrigentino, propagando l'arte della maiolica
attraverso quel Matteo Maurici, nipote di Joannello, seguito da un nutrito
gruppo di maiolicari caltagironesi, fra cui Pietro e Francesco Gangarella,
Giacomo Sperlinga, Antonio Merlo, Giuseppe Savia, Bartolomeo Daidone
ed altri.
Del '600 si può dire altrettanto. Infatti, oltre ai siginificativi frammenti
del pavimento datato 1621, opera di maestro Francesco Ragusa, e a quelli
dell'altro impiantito della seconda metà dello stesso secolo, di maestro
Luciano Scarfia, rispettivamente appartenenti alle Chiese di S. Maria
di Gesù e dei Cappuccini (ed oggi in parte conservati al Museo Regionale
della Ceramica), il resto fu travolto dal terremoto dell'1 1 gennaio
1693, che cancellava nella parte orientale dell'isola, quasi ogni traccia
dell'attività plurisecolare delle officine ceramistiche caltagironesi.
Ma chiusosi il secolo XVII fra gli sconvolgimento tellurici ed i lutti
che non meno delle altre città afflissero Caltagirone, con l'avvento
del nuovo secolo si ebbero palesi segni di ripresa anche per l'arte
ceramica. Essa sotto nuovi indirizzi artistici rifiori. Vennero fuori
nel '700 gli ornati a motivi floreali a grandi volute e a disegni continuativi.
Escono in questo secolo dalle fornaci caltagironesi vasi con ornati
a rilievo e dipinti, acquasantiere, lavabi, paliotti d'altare, statuette,
decorazioni architettoniche di prospetti di chiese, di campanili e di
case private, pavimenti con ornati a grandi disegni. Sono i Polizzi,
i Dragotta, i Branciforti, i Bertolone, i Blandini, i Lo Nobile, i Ventimiglia,
i Campoccia, i Di Bartolo e tanti altri maestri che fanno splendere
con la loro superba arte plastica e pittorica in ogni angolo di casa
e di chiesa di Sicilia la maiolica caltagironese. P- Angelo o Michelangelo
Mirasole, nativo di Aragona nell'Agrigentino che, imparentato coi Lo
Nobile, fra i piú valenti ceramisti caltagironesi, realizza statue,
mezzi busti e rivestimenti in maiolica come quello del Teatrino, progettato
nel tardo Settecento dall'architetto Natale Bonaiuto, ove collaborò
pure il maiolicaro Ignazio Campoccia, autore dei piú vasti pavimenti
settecenteschi caltagironesi a grande disegno. P- Giacomo Bongiovanni,
la cui nonna era sorella di Antonino Bertolone, abile maiolicaro e plasticatore,
che sulla fine del secolo ed i primi deceni del nuovo, ispirandosi alle
opere del trapanese Giovanni Matera, anima le sue figurine di terraccota
di pulsante vita paesana, seguito nell'arte dal valente nipote Giuseppe
Vaccaro.
Sulla scia di questi maestri altri si incamminarono dando all'arte delle
figurine notevole impulso artistico e grande notorietà anche lontano.
Ci limitiamo a citare fra questi Giacomo Azzolina e soprattutto Francesco
Bonanno che, oltre che all'arte del Bongiovanni, si ispirò alle incisioni
di Bartolomeo Pinelli, specie in quelle scene che ritraggono soggetti
di briganti. Attivo nello stesso periodo è il ceramista Giacomo Arcidiacono
cui si deve il rivestimento in maiolica del prospetto della chiesa di
S. Pietro disegnato dall'architetto Gaetano Auricchiella nel 1856.
Ma ben presto segue a tanto fervore di qualificata attività artistica
la parabola discendente. L'Ottocento con l'uso del cemento nei pavimenti,
col dilagare di terraglie continentali e stoviglie napoletane sul mercato
isolano, frutto di produzione seriale dovuta al progresso della tecnica
e delle macchine, dà un fatale colpo alla ceramica caltagironese che
continua a dibattersi fra gli antichi procedimenti tradizionali di vetuste
botteghe prettamente artigianali.
Una breve fioritura ebbe a Caltagirone fra la fine dell'Ottocento e
i primi del Novecento la terracotta decorativa usata nell'architettura
per merito del plasticatore e maiolicaro Giuseppe Di Bartolo e dei modellatori
Enrico Vella e Gioacchino Alì. Ma questa venne meno con la morte degli
stessi maestri, che seppero darle quel periodo di floridezza e diffusione,
favorita anche dalla mole di opere richieste dal Cimitero monumentale
e dal campanile di S. Giacomo, rispettivamente progettati dai locali
architetti G.B. Nicastro e Gaetano Coniglio.
Furono questi maestri gli ultimi bagliori della ceramica calatina.
Dopo la loro scomparsa Caltagirone avrebbe cessato di essere annoverata
fra le città produttrici di maioliche e terrecotte, se per merito di
Don Luigi Sturzo non fosse sorta una Scuola di Ceramica che si innestasse
alla vecchia tradizione ceramistica e la continuasse aggiornandola ai
tempi.
Don Luigi Sturzo, raccolti gli ultimi rappresentanti di quella morente
tradizione, fra cui il maiolicaro Gesualdo Di Bartolo, il figurinaio
Giacomo Vaccaro, ed il plasticatore Giuseppe Nicastro, allievo di Enrico
Vella, aprì nel 1918, lottando contro remore ed incomprensioni, la Scuola
di Ceramica, oggi divenuta Istituto d'Arte per la ceramica. Essa ha
dato esempi di vitalità in realizzazioni di vasta portata, come il rivestimento
maiolicato delle alzate dei 142 gradini della monumentale Scala di S.
Maria del Monte in Caltagirone, che, su disegni da noi ideati e progettati,
negli anni 1954-1955 ha visto impegnati nell'esecuzione valenti ex allievi
dell'Istituto come Gesualdo Aqueci, Nicolò Porcelli e Francesco ludice.
Filiazione diretta dell'Istituto d'Arte può, a ragione , considerarsi
il locale Museo della Ceramica, che con una eccezionale documentazione
di cimeli ceramici di ogni tempo, da noi raccolti, presenta ai visitatori
un quadro completo dello svolgimento plurisecolare non solo della ceramica
caltagironese, ma dell'intera isola.
Ormai lo spirito della tradizione per merito della Scuola di Ceramica,
per oltre vent'anni, da noi diretta, è ritornato a pulsare nei petti
degli artigiani che numerosi sono ricomparsi operanti in ogni angolo
della città. La Scuola ha così esaurito la propria missione che è passata
ora esclusivamente al Museo. Ad esso, come ad una limpida fonte, potranno
attingere inesauribili linfe vitali gli artigiani locali e.forestieri
che, pur sotto l'incalzante stimolo della richiesta, vogliono richiamarsi
alle glorie del passato e trovare insieme novelle ispirazioni. |