Caltagirone,
che é detta la Regina dei monti e che per i suoi
circa 40 mila abitanti costituisce uno dei centri piú importanti
dell'interno dell'isola, sorge sulle pendici nord-orientali degli Erei
e quelle nord-occidentali degli Iblei ad oltre 600 metri sul livello
del mare.
È situata a 32 gradi di longitudine e 37 gradi di latitudine
settentrionale.
Il suo abitato, disposto ad anfiteatro ed addossato ad oriente ed a
mezzogiorno di due colline argillose di diversa altezza, ne ricopre
gli sfaldati fianchi e i dorsi elevati con le ammucchiate case, le inerpicate
vie e i dominanti templi.
La collina principale, percorsa a mezzogiorno dalla grandiosa Scala di S. Maria del Monte, supera di parecchio l'altra, cui é congiunta
in basso a mezzo del monumentale Ponte seicentesco di S. Francesco e
domina le vallate ed i monti circostanti, lasciando scorgere dalla sua
cima, da una parte la piana di Catania e dall'altra quella di Gela con
i due mari che le bagnano.
Essa
fu abitata fin dall'etá eneolitica dai Siculi e per tempo sentí
gli influssi dei colonizzatori greci che da Gela a dalla vicina anonima
cittadina di Monte San Mauro, penetrarono verso l'interno.
La civiltá di questi Siculi é sufficientemente documentata
dalle numerosissime necropoli scavate sotto gli strati di pietra arenaria
in contrada Angelo e nel calcare in contrada Bianchino e sopratutto
in contrada Pille, Montagna ed a S. Ippolito, dove l'Orsi trovó
notevoli tracce di manufatti fittili con caratteristiche peculiari non
riscontrate altrove.
Le predette necropoli, quasi tutte a grotticelle, ebbero continuitá
in epoca greca nei piú vicini sepolcri terragni e tombe di argilla
a cappuccina come quelle di S. Francesco di Paola, di S. Luigi, dell'Acquanouva,
dei Cappuccini, di S. Giorgio, di S. Bonaventura, che formano un ininterrotto
tappeto ad anello che stringe da ogni parte le case dell'odierno abitato
cittadino, ricco pur esso di testimonianze sicule, greche, romane, bizantine
e medievali, fornite dal sottosuolo.
Tutto ció inequivocabilmente documenta che nel V e VI secolo
a.C. i Greci, per infiltrazione e pacifica convivenza con i Siculi del
luogo, avevano posto saldo piede sulle colline dell'odierna Caltagirone
producendovi ceramiche che i Siculi del posto ben presto imitarono e
produssero parallelamente alle loro, modificandone, si capisce, non
poco lo stile e la tecnica.
E questo ci hanno dimostrato chiaramente nel giugno del 1948, i casuali
rivenimenti di numerosissimi rottami e scarti appartenenti ad una fornace
del V e VI secolo a. C., che sorgeva entro la selva dell`ex monastero
delle benedettine di S. Gregorio, proprio nel luogo dove si cavavano
le fondazioni della nuova ala dell`Istituto Statale d`Arte per la Ceramica.
Ivi interessantissimi cocci di vasellame greco e siculo dell`ultimo
periodo, si sono trovati frammisti indiscriminatamente.
I motivi in essi riscontrati, ci richiamano tutta quella ingente quantitá
di vasi rinvenuti nel territorio di Caltagirone e dintorni, cui prima
si assegnava piú lontana provenienza.
Sotto i Romani l`importanza naturale dei luoghi ove sorge la cittá,
dové essere non poco sfruttata dagli schiavi ribelli delle due
guerre servili, che minacciarono il dominio di Roma sull`isola nel II
secolo a.C.
Resti di tombe romane rinvenute presso la Chiesa di S.Giuliano, in contrada
Semini ed in quella di S.Bartolomeo (da dove proviene un grosso frammento
marmoreo di urnetta cineraria, oggi da noi conservato presso il locale
Museo della Ceramica), e sopratutto i segni di violenti scontri rilevati
non molti anni addietro al ponte della Maddalena, ci riportano sicuramente
a quelle alterne vicende delle guerre servili, quando gli schiavi si
erano raccolti attorno al tempio dei Palici, divinitá tutelari
dei Siculi, a 25 Km da Caltagirone.
L`abitato antico, per quanto ridotto, esisteva sotto i Bizantini e ne
sono sicuro indizio la denominazione dei greci data ad una porta
della vecchia cittá ed alla vicina fonte, il culto a S.Nicola
di Mira ed il tempio principale dedicato alla Madonna Assunta, conservatisi
fino ai nostri giorni.
Gli Arabi, che non dovettero tanto lottare per la conquista di questa
cittadella, allora poco portificata, se ne impadronirino qualche anno
dopo del loro sbarco in Sicilia, quando arroccatisi nella vicina Mineo,
facevano delle continue sortite.
Essi vi rimisero in auge l`arte della ceramica, la cui decadenza sotto
i Romani e sotto i Bizantini é avvertita dalla mancanza di esemplari
significativi in tutti gli scavi fin oggi praticati.
La forma piú genuina ed antica del nome, che tuttoggi la cittá
conserva quasi invariata, si legge nel diploma del 1160, rilasciato
dal re normanno, Guglielmo il Malo, ai fedeli calatini, a conferma delle
concessioni feudali fatte agli stessi dal padre Ruggiero nel 1143.
Essa é Calatagerun, che nello stesso documento,
contrariamente a quanto scrive l`Amari, diventa Calatageron,
declinabile, e porta a ritenere la forma Qal`at àl Ganun
(ricavata dall`opera geografica dell`Idrisi compilata nel 1154) altra
denominazione dell`abitato, al pari di Qal`at àl Hinzaria,
che si riscontra nello stesso autore.
Ma per quanto la prima parte del nome, Calata, denunzi
sicuramente origine araba, si puó ammettere che la seconda parte
dello stesso nome, Geron, derivante con ogni probabilitá
dal genitivo plurale greco Geloon cioé dei Gelesi
(nella parte locale la l solitamente viene cambiata in r ),
porti una denominazione di abitato anteriore, che dové essere
bizantino e, sia pure con minore importanza, anche romano e greco.
Indubbiamente l'ubicazione della cittá in sito eminente, a cavaliere
dei due versanti, ionivo e africano, cenunzia un'importanza non comune,
nel controllo delle due ampie vallate comunicanti rispettivamente con
la piana di Catania e con quella di Gela, e nel dominio delle circostanti
colline, in ogni tempo assai popolate.
Tale importanza le dové essere riconosciuta anche nell'antichitá
e puo facilmente spiegare la continuitá di umani insediamenti
sul luogo, che si perdono nel buio della preistoria.
Comunque, se incerte sono le vicende dell'abitato sotto i Greci, i Romani,
i Bizantini, gli Arabi, Caltagirone si affacció decisamente alla
ribalta degli avvenimenti politici sotto i Normanni.
Liberata dal giogo mussulmano verso il 1030 per opera dei Genovesi (probabilmente
quali ausiliari di Maniace) che lasciarono alla cittá il loro
stemma, Caltagirone era ricaduta tosto sotto il dominio mussulmano,
e fu definitivamente liberata dal Conte Ruggiero normanno nel 1090,
quando in riconoscimento del favorevole esito della battaglia combattuta
il giorno festivo dell'Apostolo Giacomo a pochi chilometri dall'abitato,
nella localitá ancora oggi denominata Saracena,
volle il Conte dedicare al Santo un tempio e consacrargli la Cittá
stessa.
Ai Calatini, che nel 1076, dalla patria ancor non liberata dal giogo
saraceno, erano accorsi clandestinamente nelle file dell'esercito del
Conte, allorché questi si affacciava vittorioso sulla piana di
Catania e si presentava ovunque come liberatore dei cristiani oppressi,
erano stati concessi i possedimenti terrieri appartenenti alla rocca
di Judica, alla cui espugnazione essi avevano partecipato.
Tali vasti possedimenti denominati Camopietro, unitante
a quello di Fetanasimo o Santo Pietro, pure
concessi dal Conte ai Calatini, furono saldati dalle somme dovute, a
Guglielmo il Malo nel 1160, rimanendo ad essi solo da pagare il tributo
annuo in denaro ed in marinai.
Dopo il Vespro Siciliano, con l'avvento degli Aragonesi e la fine del
loro oppositore, Gualtiero di Caltagirone, la cittá ebbe
ulteriori riconoscimenti dai nuovi monarchi. Il patrimonio fondiale
fu accresciuto con la donazione del feudo di Regalseme, che in qualche
modo compensó le depradazioni avvenute in epoca angioina.
Orgogliosi di questi vasti possedimenti terrieri, che ponevano Caltagirone
al primo posto fra le cittá demaniali isolane, i Giurati, nel
1569, facevano incidere sul portale del Palazzo di cittá, intagliato
da Giandomenico Gagini, la seguente epigrafe, monito ai cittadini a
conservare, accrescere e tramandare il civico patrimonio:
O
CIVES PATRIAE CONsulite
REBUS PUBLICIS PROSPIcite
NOSTRAE URBIS PATRIMONium summa
FIDE SERVANTES AUgete hoc
ENIM
EST RELIQUARUM
SICILIAE PRIMA CALTAGiron
Detta
iscrizione, nella parte da noi recuperata, che é quella in lettere
maiuscole, oggi trovasi esposta nelle due lastre che la compongono,
a centro di una sala del Museo Civico e rimane a testimoniare l'orgoglio
dei cittadini per il vasto e ricco patrimonio demaniale, purtroppo oggi
quasi del tutto scomparso.
Queste immense ricchezze consentivano continue elargizioni ai sovrani
di tutti i reami succedutisi nell'isola, che, procurarono alla cittá
riconoscimenti e titoli come quelli di "gratissima" datole
da Ferdinando d'Aragona nel 1496, e di "magnifica" da Carlo
V; al quale ultimo, nel 1535, Caltagirone offriva una galera intitolata
"S. Jacopo", al comando di Don Antonio Gravina, detto il Bellicoso,
in occasione della guerra che l'imperatore conduceva contro la flotta
del feroce pirata turco Barbarossa, rifugiatosi a Tunisi. Lo stesso
Gravina l'anno prima aveva fondato nel suo feudo di Ganzaria l'abitato
S.Michele.
La cittá nel fasto e nella ricchezza, nei secoli YV, XVI, XVII,
pensava pure a chiamare i migliori artisti dell'isola, perché
arricchissero i pubblici e sacri edifici di tesori d'arte. Ed ecco a
lavorare per Caltagirone i pittori Antonello da Messina, Nicola e Bernardino
Nigro, Filippo Paladini, Giovanni Portalone, Epifanio Rosso e poi gli
scultori Domenico, Antonello, Antonio e Giandomenico Gagini, gli intagliatori
Scipione e Luca di Guido, gli argentieri Nibilio e Giuseppe Gagini,
Giuseppe Capra, quest'ultimo calatino.
Templi sontuosi come quelli dedicati al protettore S. Giacomo. a S.
Maria del Monte, a S. Giuliano, e poi il grandioso Collegio dei Gesuiti,
ricchi di opere d'arte, decorarono la città nel fervore della
Rinascenza e fino alla tremenda catastrofe del terremoto dell' 11
gennaio 1693. Fu allora che perí quasi tutto il patrimonio
storico ed artistico accumulato da secoli e morirono circa mille persone.
Intrapresa alacremente la ricostruzione, sotto la guida del valente
architetto d' Agrigento Simoene Mancuso e l'opera di maestranze agrigentine,
catanesi e maltesi, nonché di maestri scultori-intagliatori messinesi,
come Antonio Amato ed i figli Andrea e Tommaso, dalle macerie non uscirono
piú quei tesori artistici, testimoni di parecchi secoli di splendore
della cittá. Poche sono, infatti, le opere superstiti in confronto
alla ingente mole che la cittá possedeva.
A ridare decoro ai monumenti sacri e civili vennero dopo la prima metá
del Settecento i valenti architetti Rosario Gagliardi siracusano, Francesco
e Paolo Battaglia, padre e figlio catanesi, Giuseppe Venanzio Marvuglia,
palermitano, Natale Bonajuto, siracusano, Carlo Maria Longobardi, calatino.
A
questi maestri si debbono gli edifici settecenteschi come la Chiesa
e il Campanile dell' ex Matrice, il Tondo Vecchio,
il Carcere Borbonico, il Monte di Prestamo,
il Teatrino, la Chiesa del Rosario. Sono
queste tra le opere piú significative del '700 calatino nel campo
dell'architettura, ove rifulse pure geniale la decorazione policroma
in maiolica (all'interno nei pavimenti e all'esterno nei prospetti),
per opera di capacissimi ceramisti locali, fra cui in particolare i
maestri Ignazio Campoccia e Angelo Mirasole, quest'ultimo originario
di Aragona nell'Agrigentino.
L'Ottocento vide sorgere a Caltagirone l'incantevole opera di G.B. Filippo
Basile, il Giardino Pubblico, decorato poi nei suoi viali
dalle terrecotte del Vaccaro e dalle maioliche di Giuseppe di Bartolo;
e quelle dell'architetto G.B. Nicastro, quali il Cimitero
e il Palazzo di cittá, costruzioni insigni veramente
a cui l'artista affidó il suo nome.
L'ultima
grande guerra ha lasciato anche a Caltagirone i suoi lutti e le sue
rovine. Coi 700 morti e la scomparsa di moltissime abitazioni si annoverano
pure i non lievi danni arrecati a uno dei due piloni gagineschi dell'Acquanuova,
che erano rimasti in piedi nel terremoto del 1693, e quelli, ancora
piú gravi, al portale del lato meridionale del tempio del Protettore
ed al prospetto dell'antica Corte Capitaniale, oggi Sporting Club, entrambe
pure opere gaginesche.
Oggi tali danni sono stati rimarginati, per cui é possibile rivedere
ancora in piedi i monumenti atterrati dall'umana violenza.
La cittá, per quanto abbia sofferto, dopo questa furia devastatrice,
conserva ancora quasi tutte le sue attrattive che hanno richiamato in
ogni tempo visitatori dalle piú lontane regioni.
Oltre alla preziosissima argenteria ed ai paramenti sacri degli ex Conventi
e Monasteri, l'incantevole statua della Madonna della Catena in S. Maria di Gesú, del noto Antonello Gagini; l' Arca
argentea delle reliquie di S. Giacomo, capolavoro di Nibilio
e Giuseppe Gagini; le preziose tavole della Trinitá
e della Nativitá, dovute l'una a scuola fiamminga
e l'altra a Teodato Guinaccia, nonché i diversi quadri di Filippo
Paladini, e dei pittori calatini dell' 800, Giuseppe e Francesco Vaccaro,
fratelli, sparsi per le chiese, giustificherebbero da soli le continue
visite dei forestieri, se non vi fossero ancora le ceramiche che oggi
attraverso un qualificato artigianato e il Museo Regionale della Ceramica,
quast'ultimo recentemente creato, hanno avuto prestigioso impulso all'arte.
Con la conoscenza dei passati fasti e delle nuove ed aggiornate tecniche,
é stata rinverdita la tradizionale attivitá dell'artigianato
locale, che da millenni si sviluppa nella cittá, assisa proprio
sulla stessa argilla che hanno plasmato i suoi geniali ceramisti, fra
cui vanno annoverati i Bongiovanni ed i Vaccaro che sul tardo Settecento
e nell'Ottocento, crearono figurine piene di vita e di carattere, ammirate
in tutto il mondo. |